Nella sua lunghezza di quasi 650 chilometri, il fronte militare italo-austriaco si svolse in gran parte su territorio montuoso, dai massicci dell’Adamello (al confine tra Lombardia e Trentino), passando per la Marmolada, le Dolomiti, le Alpi Carniche e le Alpi Giulie, raggiungendo in alcuni punti anche i 3.000 metri di quota.
Furono poche le brigate di fanteria semplice impiegate, perché totalmente inadeguate alla particolare condizione del terreno, che esigeva un tipo di soldati adatto alla vita ma soprattutto al combattimento su quel tipo di territorio, ne conoscesse le insidie e fosse abituato alla rigidità delle temperature: il corpo degli Alpini, istituito nel 1872, fu la speciale fanteria di montagna che reclutò giovani provenienti da tutte le zone montagnose della penisola e fu chiamato a fronteggiare la controparte austriaca rappresentata dalle “Landesschützen” (fucilieri regionali) e dai “Kaiserjäger” (i cacciatori imperiali). Il primo caduto militare italiano fu proprio un alpino, l’udinese Riccardo (Di) Giusto, ucciso nella notte tra il 23 e 24 maggio mentre varcava il confine sul monte Natpriciar, nei pressi di Tolmino (oggi Tolmin, in Slovenia). Alto fu il loro tributo di sangue per tutta la durata del confitto: quasi 26.000 morti e oltre 76.000 feriti, senza contare i più di 18.000 dispersi.
Non è difficile comprendere il motivo per cui intorno alle loro gesta si sia coagulata la simpatia degli italiani, diventando quasi l’immagine simbolo dello sforzo bellico nazionale. Alla condizione di partenza, già di per sé complessa, si aggiunse l’inadeguatezza degli equipaggiamenti forniti in dotazione agli Alpini, cominciando dalle stesse uniformi grigioverdi che per tutto il 1915 li esposero al fuoco nemico, rendendoli riconoscibili in contrasto al manto nevoso (solo più tardi furono adottate le mimetiche di colore bianco); spesso con i mortai, da ambo le parti del fronte, si tentò di provocare valanghe per colpire i campi nemici, la cosiddetta “morte bianca”.
Lo stesso approvvigionamento alimentare fu reso possibile grazie all’insostituibile supporto logistico assicurato dai portatori, ma soprattutto dalle portatrici.
Centrale il ruolo della popolazione civile in risposta alla richiesta d’aiuto a favore della prima linea: essendo gli uomini impiegati al fronte, centinaia di donne dai 15 ai 60 anni d’età munite di pesanti gerle trasportarono, a spalla, munizioni, derrate ed altri materiali utili al sostentamento e al rifornimento militare, percorrendo anche 1.000 metri di dislivello.
Sul fronte della Carnia e del Tarvisiano le portatrici rischiarono la vita ed anzi alcune di esse caddero nel compimento della missione, come Maria Plozner Mentil, uccisa da un cecchino a Paluzza, sopra Timau, paese natale della donna, il 15 febbraio 1916; nel 1997 ricevette la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
I FUCILATI DI CERCIVENTO
In guerra si riscontrarono le più diverse declinazioni di eroismo non solo da parte di chi fu costretto ad obbedire ciecamente agli or dini impartiti: oggi sono riconosciuti, benché non ancora pienamente, i meriti dei quattro fucilati di Cercivento, in Carnia, rei di essersi opposti – pagando c on la vita – al comando “suicida” di attaccare postazioni austriache in pieno giorno; l’assurdo ordine fu smentito poche ore dopo l’avvenuta esecuzione (1 luglio 1916), allorché nottetempo la conquista della cima del monte Cellon fu compiuta da un’altra compagnia, seguendo proprio le indicazioni suggerite dai “traditori”, che in realtà erano ottimi conoscitori della zona di guerra.